STORIE,
ANEDDOTI E BATTUTE |
SAN BENEDETTO |
I Salesiani a 150 anni dalla fondazione e da 120 anni a Parma
(1859-2009)
San Bendétt
Per i parmigiani il complesso che comprende l’Istituto del San Benedetto, la chiesa e l’oratorio nonché l’asilo e la scuola delle suore Figlie di Maria Ausiliatrice, è conosciuto come “San Bendètt”. L’oratorio, in particolare, era il polo d’attrazione dei ragazzi che abitavano la parte di città che comprende il Duomo. (Anche la S.S.Trinità aveva un oratorio molto attivo). Per quelli dell’Oltretorrente il polo erano “I stimatén” (la parrocchia dei padri Stimmatini di via Massimo D’Azeglio).
Tutto deriva da un evento accaduto 150 anni fa quando, il 18 dicembre 1859, nella camera di Don Bosco, presso l’oratorio di San Francesco di Sales a Valdocco, dove 18 giovani, secondo quanto riportato nello storico verbale, decisero "di erigersi in Società o Congregazione che, avendo di mira il vicendevole aiuto per la santificazione propria, si proponessero di promuovere la gloria di Dio e la salute delle anime, specialmente delle più bisognose di istruzione e di educazione".
30 anni dopo, cioè120 anni fa, Don Bosco in persona fondò la Casa di Parma, ultima fra quelle da lui volute. I salesiani si insediarono nel “Plugär äd San Bendètt” a ridosso dei “rampari” demoliti più tardi per allargare la città. Scelto perché luogo aperto e suscettibile di ampliamento.
Il rione era poverissimo e la miseria, ieri come oggi divide, è conflittuale. Tra i giovani, armati di sassi e divisi in gruppi, che prendevano il nome dalle antiche porte, spesso si accendevano zuffe. C’erano i “Barnabot” di porta San Barnaba (barriera Garibaldi; i “Francescàn” di porta San Francesco (barriera Bixio); i “Crozén” di porta Santa Croce (barriera D’Azeglio; e i “Bendetén” di porta San Benedetto (barriera Saffi).
I salesiani riuscirono presto ad inserirsi nel quartiere ma gli inizi non furono facili. L’ambiente era sfavorevole. Basti dire che contro lo stesso Don Bosco, in borgo Delle Colonne, furono lanciati sassi. Certamente quei giovani non potevano sapere che Don Bosco aveva valorizzato i bambini e i giovani come mai nessuno prima di lui aveva fatto, che aveva “inventato” per loro il noto “Sistema preventivo” più attuale che mai per l’educazione giovanile. Nemmeno potevano sapere, e per la verità anche oggi non tutti sanno, che Don Bosco è grandissimo anche perché, pur non essendo l’inventore delle scuole professionali, ha dato loro un impulso determinante. Basti pensare che la prima legislazione relativa agli Istituti professionali nel nostro Paese è del 1912, mentre Don Bosco aveva iniziato a creare laboratori artigianali già a partire dal 1853. Notevole anche che nelle sue scuole non si insegnava soltanto il “mestiere” ma si dava anche cultura. Nel quartiere Saffi i salesiani vengono presto qualificati come “i preti che giocano”. Un amico salesiano, per stressare il concetto, mi diceva: “Noi salesiani siamo “animali da cortile”. È nel cortile infatti che si gioca, ci si conosce, si stabiliscono relazioni e amicizie. Il “cortile” dell’oratorio in breve tempo vide l’affluenza di varie centinaia di giovani.
Anche nel dopoguerra l’oratorio di San Benedetto ospitava centinaia di ragazzi che giocavano nei cortili non asfaltati. Quando arrivava sera erano impregnati di polvere e di sudore per cui assumevano un "odore" tipico che le mamme riconoscevano.
"Al sà d’oratori", dicevano, e per pulire le ginocchia usavano la “zbrussc’ia” (spazzola). Alla domenica, all’ora della messa, il Direttore dell’Oratorio chiudeva le porte. C’era chi cercava di scappare ma lui li prendeva per la gola: "Se uscite, niente panino con la mortadella". Di conseguenza a messa venivano recitate anche preghiere che sapevano di mortadella ma probabilmente gradite ugualmente.
Recentemente Ugo Ghillani, vecchio oratoriano doc, mi ha scritto:
Caro Mezzadri, è da tempo che leggiamo delle tue pazienti e volonterose ricerche dei tanti aspetti del nostro "lessico famigliare"; detti, usanze, poesie ecc. Questo tuo ricercare e ricordare mi ha suggerito, come ex-allievo dell’oratorio, di ricercare nella mia memoria qualche pagina del nostro passato oratoriano che merita di essere ricordata. Le gite, la banda, il primo gruppo sportivo della pallavolo e del calcio (Victoria), le feste campestri, le "carnevalate", nonché le "premiazioni" dei più solerti oratoriani alla frequenza del catechismo e dell'oratorio. E che dire poi della indefessa attività teatrale con commedie e qualche operetta musicale?
Ghillani ha ragione. Come parmigiani siamo in debito con i Salesiani e con l’oratorio. L’oratorio è stato, e lo è ancora, seppure in minor misura di un tempo, una realtà importante e merita che la sua storia lontana e recente venga raccontata. Spero, perciò, di poter di tornare sull’argomento.
Giuseppe Mezzadri
Nebbia, in
dialetto, si dice fumära anche se ormai
sono in molti a dire nébia
che è una forma di dialettizzazione dell’italiano. E’ un peccato
veniale e comunque sempre meglio che non parlarlo affatto il dialetto.
Questa
evoluzione capita anche ad altre parole come, ad esempio, alla parola
“gradino” che in dialetto si dovrebbe dire péca
ma che ormai è quasi sempre spodestata da gradén. Oppure la
parola gengiva che si dovrebbe tradurre con zonzìa anziché
gengiva come in italiano. Altri esempi di parole che si evolvono sono;
“patate” che diventa patati anziché
pòmm-da-téra, “mattone”
che diventa matón invece di quadrél
e “pomodori” che fa pòmmdor al posto di tomachi.
Il noto
poeta dialettale Fausto Bertozzi è anche l’autore delle previsioni del tempo
del Lunario parmigiano di “Parma Nostra”. Sono previsioni che non hanno la
scientificità di quelle della televisione ma in compenso sono più divertenti.
A proposito
della nebbia, una di queste sue previsioni, recita:
“ ’Na fumära acsì
fissa ch’a t’ gh’é pól pozär incontra la biciclètta”
(Una nebbia così fitta che le si può appoggiare contro la bicicletta)
e
un’altra:
“ giasa, vént, frèdd
e fumära; pés de ‘csì a n’ gh’è che la vciära”.
(ghiaccio, vento, freddo e nebbia; peggio di così c’è soltanto la vecchiaia)
Bertozzi si
diverte anche a inventare proverbi come questo che ha inserito nel mese di
agosto:
“Quand
a canta la sigala a per fresch infinn la stala”
(quando canta la cicala sembra fresca perfino la stalla)
Un altro
modo di dire per rendere l’idea di una nebbia molto fitta è:
“ ’Na fumära acsì
fissa ch’ la s’ taja cól cortel”
(Un nebbia così fitta che si può tagliare con un coltello)
L’idea
della nebbia che si “taglia” è presente anche nella nota filastrocca per
bambini che recita:
Rézga, rézga la fumära
Par andär a Frasanära
Frasanära dal molén
Tira la còvva al cagnolén
(Rézga significa segare)
Un tempo la
nebbia era più fitta di adesso e nell’arco dell’anno capitavano alcune
giornate con nebbioni veramente terribili. Ricordo una Vigilia di Natale di
circa trent’anni fa con una nebbia incredibile in città e, ancora peggio,
nella Bassa. Tempo dopo parlavo di quella famosa Vigilia di Natale così
nebbiosa con il pittore Pelizzoni che abitava a Sissa. Mi raccontò che egli,
proprio quella sera, stava rincasando, ed era già in ritardo a motivo appunto
della nebbia. Ad un tratto dovette fermarsi perché trovò un’auto ferma nel
mezzo della strada e l’autista, quasi piangendo, gli confessò che si era
perso e non era in grado di rincasare. Pelizzoni non se la sentì di
abbandonarlo e lo accompagnò a casa.
Un’altra
storia di nebbia me l’ha raccontata l’amico Andrea. Un suo zio abitava a San
Secondo in una casa in aperta campagna. Per arrivarvi doveva percorrere una
strada che costeggiava un canale e poi, ad un certo punto, doveva svoltare in
una stretta stradina che in caso di nebbia risultava difficoltosa da imboccare.
Fortunatamente la strada era fiancheggiata da alti pioppi che, quando la nebbia
era fitta, gli servivano da riferimento per individuare la stradina. Bastava
svoltare dopo l’ultimo pioppo. In una sera di nebbia fitta, come al solito,
svoltò dopo l’ultimo pioppo e si trovò dritto nel canale. Era successo che
avevano tagliato un paio di pioppi.
La nebbia
qualche colpa ce l’ha ma non tutta quella che le si attribuisce. A volte è
anche calunniata. Quando, ad esempio, in autostrada avvengono i maxi
tamponamenti i giornali scrivono che è stata colpa della nebbia. Il mio amico
Azzali però, esperto di sicurezza, sostiene che nei tribunali, dove vengono
attribuite le responsabilità, la nebbia non è mai stata condannata; sempre e
soltanto gli autisti.
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In
occasione della recente nevicata parlavo con un barista del famoso obbligo,
risalente ai tempi di Maria Luigia, che obbligava i frontisti a pulire strade e
marciapiedi.
Egli
mi rispose che la cosa non lo preoccupava perché lui la neve non la spalava ma
aspettava l’aiuto dei suoi due fratelli.
Gli
ho chiesto chi fossero i suoi fratelli e la risposta è stata: “Luj
e agost” (luglio e agosto). Aggiunse poi gli anche gli antichi
insegnavano che due tra le azioni più inutili che si possano fare sono:
“Masär
la genta parché tant i moron da lor e fär la ròtta perché tant la neva la va
via dalè”.
(Ammazzare la gente perché tanto muore da sola - anche senza essere aiutata- e
spalare la neve perché tanto va via da sola)
LA
SPOSA
Un mio amico
si lamentava con il fratello prete del ferreo controllo della propria moglie.
Questi gli disse che anche lui non era poi tanto libero perché “Aveva
sposato la Chiesa”. “E’
vero che tu hai sposato la Chiesa”, ribattè il mio amico:
“Mo s’a t’ vè a cà tärdi la ne t’bräva miga! (Se vai a casa
tardi non ti sgrida)
COMMERCIANTI
Il motto dei bottegai di una volta era:
“Ot
etto a tutti, nóv etto a un quelchidón e un chilo a nisón”
(otto etti a tutti, nove etti a qualcuno e un chilo a nessuno).
Fintanto che si dice in modo scherzoso i commercianti lo accettano ma,
se scherzo non è, non gradiscono. Mi raccontava un commerciante dalla risposta
pronta che, ad una cliente che gli dava, neanche tanto velatamente, del
disonesto, replicò:
“Siora,
chi è äd l’ärta stimma l’opra.” (Chi è dell’arte stima l’opera).
L’ESEMPIO
A proposito di “testimoni e maestri”, i nostri vecchi conoscevano
bene l’importanza della famiglia e quanto fosse determinante l’esempio degli
adulti nell’educazione dei figli. Lo si desume anche dai loro modi di dire
come nell’esempio che segue.
Un’anziana signora si lamentava perché aveva
saputo che la nipote sedicenne non andava più alla messa. Attribuiva la
responsabilità del cambiamento all’esempio della madre della ragazza, che già
da anni aveva smesso di essere praticante. La donna commentava amaramente: “Al pòmm al casca miga lontan dala pianta”. (La mela non cade
lontano dalla pianta)
C’è anche un altro modo di dire abbastanza simile che recita: “I
fjó di gat i ciap’n i sòroggh” (I figli dei gatti prendono i
topi).
MODI
DI DIRE
Angela è una volontaria, mia amica, che insegna lingua italiana in un
corso per extracomunitari. Quando, nella classe più avanzata, insegna i modi di
dire, chiede se esiste un equivalente nella loro lingua. Alla richiesta di quale
fosse l’equivalente di: “Poca
brigata, vita beata” un cubano ha risposto: “Poche
scimmie, molte banane”.
SANTITA’
Parlavo con don Martino, decano dei frati di S.Giovanni, di una certa
rivalità, tra i canonici del Duomo e i frati di S.Giovanni, che a volte
traspare leggendo le antiche cronache medioevali. Egli commentò: “Forse
anche più di recente noi monaci siamo preferiti ai canonici perché siamo qui,
chiusi e nascosti, e la gente di fuori pensa che siamo tutti dei santi. Non lo sa che siamo canaglie anche
noi.”
A proposito di santità, mio zio, don Leopoldo Buratti, vecchio e saggio
prete, per smorzare gli entusiasmi di chi attribuiva con leggerezza la patente
di santità a persone ancora viventi, diceva: “Santo che mangia dategli da bere”.
FURBIZIA CONTADINA
Nelle veglie
invernali i contadini si riunivano nelle stalle. Passavano il tempo a giocare a
carte, a parlare di vari argomenti e a raccontare storie. Erano per lo più
storie ingenue ma che divertivano ugualmente. Spesso raccontavano della
“furbizia” dei contadini come in questa che segue.
Un
contadino, non potendolo fare personalmente, incaricò il figlio di accompagnare
in cantina alcuni visitatori di città che intendevano comprare del vino e
desideravano prima assaggiarlo. Nel dargli l’incarico si premurò anche di
istruirlo a dovere.
“Mi raccomando”,
gli disse “Dai loro da bere in un
piatto.” “Ma babbo, si beve
meglio nel bicchiere!”. “Lo so
anch’io, ma tu dagli da bere nel piatto ugualmente”. Al figlio che lo
guardava perplesso spiegò: ”Se bevono nel piatto non alzano la testa e i ‘n vèddon miga i
salam!”. (Non vedono i salami)
La storia
del vino dato da bere nel piatto ricorda un modo dire che le suocere, un tempo,
utilizzavano per fare osservazione alle nuore quando vedevano delle ragnatele al
soffitto. Il detto era “Béva äd j óv!”
(bevi delle uova). La giovane sposa, bevendo le uova, avrebbe alzato lo sguardo
verso l’alto e così avrebbe visto le ragnatele da togliere.
Una signora
molto anziana mi insegnato questo scioglilingua che conosceva fin da quando era
bambina:
Se questo è vero la traduzione
è la seguente: “Ho una zappa per sminuzzare il terreno cui mettere il manico
e le tagliole per fissare le parti in ferro, se trovo chi mi ci mette il manico
e le tagliole gli pago l’immanicatura e l’intagliolatura)